Riflettendo su foucault a Pisa

Ho scoperto che Arnold Davidson insegna all’università di Pisa. Da lunedì seguirò le ultime due settimane del suo corso di storia della filosofia politica, dal titolo "politica della psicanalisi: potere, disciplina, norma".
Riporto una sua intervista per rendere l’idea della bella testa che avrò modo di ascoltare.

Arnold Davidson

L’etica della filosofia sul filo dell’inquietudine
«L’etica non è soltanto la regola, è anche creazione di una nuova cultura di sé». Parla lo studioso statunitense, fra i massimi conoscitori del pensiero di Michel Foucault
di Marica Setaro e Elisa Del Chierico
                                                   

Nella discussione pubblica in corso sui media tradizionali è quasi impossibile, ormai, non incontrare espressioni attinte direttamente dal vocabolario di Michel Foucault e diventate di uso quasi comune. Parole come «ordine del discorso» o «società del controllo» subiscono così una sorta di inflazione, al pari del concetto di «biopolitica», elaborato da Foucault a partire dagli anni Settanta. Spesso, infatti, il termine «biopolitica» è usato per indicare la «politica della vita» che caratterizza alcune dinamiche statuali o, all’opposto, per qualificare alcune rivendicazioni avanzate da movimenti sociali o della controcultura.
Chi, al di là delle mode, cerca di scavare con rigore nel campo foucaultiano è sicuramente Arnold I. Davidson che negli Stati uniti è considerato fra i maggiori studiosi del filosofo francese. Davidson, che insegna filosofia all’università di Chicago, da circa due anni, in qualità di docente esterno, tiene a Pisa corsi di Storia della filosofia politica, indagando sui temi del piacere e del desiderio, oltre che sui rapporti di forza e di resistenza che attengono ai campi dell’etica e della politica. È su questi temi che -durante la pausa di una lezione-seminario recentemente tenuta a Firenze – Davidson ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Lei ha insistito o molto sull’idea di una filosofia che sia anche scelta pratica di vita. Può illustrarci meglio la questione?


Sono sempre stato colpito dai filosofi francesi, soprattutto Foucault, ma anche Deleuze, Derrida e tanti altri, che sono riusciti a fare filosofia, parlando anche con il pubblico, senza la necessità di abbassare il livello del discorso. Si pensa che il pubblico non sia in grado di capire tutto il discorso, astratto, filosofico. La filosofia è una pratica e i concetti funzionano perché hanno la forza di cambiare il modo in cui vediamo il mondo, gli altri. L’esercizio della filosofia, dunque, come esercizio etico e politico è sempre legato al discorso filosofico. L’atteggiamento di Foucault viene chiaramente dagli studi di Pierre Hadot sulla filosofia antica. Secondo Hadot, che da molti è considerato il «maestro» di Foucault, non si può semplicemente riutilizzare l’atteggiamento antico, ma possiamo provare a capire come trasporlo dalla filosofia antica alla filosofia contemporanea e nella vita quotidiana. L’idea che la filosofia, soprattutto nell’antichità, sia una scelta di vita ci dà inoltre la possibilità di ripensare lo scopo principale della filosofia stessa. Noi viviamo la nostra vita in modo quasi automatico, la vita diventa invisibile: la filosofia può rendere visibile qualcosa che noi dobbiamo ripensare. Direi che preferisco la filosofia come esercizio e non soltanto come discorso.

In che senso l’esercizio etico del sé è un elemento di resistenza al potere?


Secondo me, la parola chiave nell’analisi del potere da parte di Foucault è la parola resistenza. Il potere è dappertutto. Resistenza è soprattutto il tentativo di modificare i rapporti di forza. Alla fine della sua vita, quando Foucault comincia a parlare di etica, viene molto criticato: lo si accusa di aver abbandonato la politica. Per me questa è un’interpretazione falsa perché Foucault ha trovato, al contrario, un’altra possibilità di resistenza: partendo dall’etica del sé arriva al cambiamento dei rapporti di forza. Nell’Ermeneutica del soggetto Foucault afferma che è «forse un compito urgente e fondamentale, politicamente indispensabile, quello di costruire un’etica del sé, se è vero, dopotutto, che non c’è un altro punto, primo e ultimo, di resistenza al potere politico se non nel rapporto di sé con sé».
Ci sono tanti punti di resistenza al potere politico. Se cambio il rapporto con me stesso, avrà effetto sul rapporto con gli altri, vedrò gli altri e il mondo in un’altra maniera. È un cambiamento continuo, un tentativo di rompere le abitudini. È una lotta incessante contro rapporti di forza stabiliti e contro atteggiamenti definiti di noi stessi. Diciamo che questo doppio attacco è il rapporto fondamentale fra la politica e l’etica. Foucault insiste molto sull’idea di inventare qualcosa di nuovo, di trovare nuove fragilità e nuove possibilità…
L’idea centrale della cosiddetta «estetica dell’esistenza» è che si deve sempre «inventare». Compito molto difficile perché non si crea un nuovo sé o un nuovo modo di vivere senza un lavoro che può riuscire o fallire, ma che si deve sempre ricominciare. Un’idea che è anche il motivo per cui, parlando della storia della sessualità, Foucault dice che non c’è il sé sessuale da scoprire, il sé nascosto, il vero sé.
C’è il tentativo di creare qualcosa che prima non esisteva e questo è per Foucault il compito etico fondamentale, vale a dire come creare un nuovo modo di vita. L’etica non è soltanto la regola, la legge, l’universalità del comandamento, ma è anche l’ attività di creazione di una nuova cultura di sé.

Nel momento in cui creiamo una «cultura etica del sé», proprio perché c’è un’assidua pervasività del potere, è possibile anche pensare a nuove forme di potere?


Quando Foucault dice che il potere non è «il male» ma è sempre pericoloso, il nostro compito è identificare il pericolo principale che cambia continuamente perché il potere non è inerte. La creazione è individuale senza essere soltanto personale, perché l’individuo è sempre legato ad altri individui. Un compito etico molto efficace dal punto di vista del potere è di agganciare gli esercizi etici agli esercizi etici degli altri e creare uno spazio, un ostacolo, un rovesciamento che, invece, può essere contrapposto al potere.

A proposito della «Volontà di sapere» di Michel Foucault, lei ha parlato di «emergenza della sessualità». Perché proprio la sessualità assume un ruolo così importante nell’analisi del potere?


Prima di tutto c’è un dato storico: la sessualità è diventata un nucleo della personalità. Non a caso è al centro di tutta la cosiddetta psicologia della personalità. È «nascosta», ma si esprime dappertutto. Se la storia dovrà essere la storia del presente, il nostro presente è legato alla sessualità. Questo è il motivo storico, ma c’è anche un motivo politico. Quando parliamo della sessualità abbiamo sempre in mente il concetto di repressione. La repressione è il modo in cui si esercita il potere contro la sessualità che presuppone una rappresentazione giuridica e negativa del potere. L’altra faccia del modello giuridico è la liberazione. Il tentativo radicale di Foucault è stato di mostrarci che i concetti di repressione e liberazione sono, in un certo senso, sbagliati dal punto di vista storico-filosofico e storico-politico.
Dobbiamo cominciare a pensare alla sessualità non come un aspetto della personalità che viene represso, o liberato, ma come prodotto dal sapere stesso. Il potere produce la sessualità e questo modo di produzione è anche un modo di controllo. Il potere come norma va al di là di ogni legge perché è un modo non giuridico di organizzare un campo accessibile al potere. Noi viviamo in una società normalizzatrice e il modello politico classico non è capace di spiegare quest’aspetto del potere che normalizza. Quindi non c’è la liberazione. Ci sono sempre rapporti di forza, e noi possiamo cambiarli per un’autonomia relativa o per un’efficacia politica rarissima. Si cambiano i rapporti di forza non soltanto aggirando la legge ma cambiando i concetti di norma, normalità, normalizzazione. La sessualità senza la normalità, e quindi senza la perversione, non esiste; è così intrecciata con l’idea di normalità che se potessimo riuscire a farne piazza pulita dovremmo per forza ripensare il rapporto con il corpo senza, forse, il concetto di sessualità. E non sarà per niente facile.

Nella «Volontà di sapere», Foucault elabora soprattutto il concetto di biopotere. Di che cosa parliamo quando parliamo di biopotere e che rapporto ha con la biopolitica?


Prima di tutto, quando Foucault diceva che il desiderio sessuale non è l’oggetto di repressione del potere ma è l’oggetto creato per esercitare il potere, indica un modo completamente nuovo di analizzare il potere. Non è per caso che la scoperta del biopotere e della biopolitica sia legata alla sessualità. Per Foucault il biopotere implica due campi fondamentali: il potere sulla vita individuale, sul corpo, e il potere sulla popolazione, sulla riproduzione del corpo sociale.
La sessualità è il perno fra il corpo individuale e la popolazione. Se si controlla il corpo dell’individuo e l’attività della popolazione in quanto si riproduce, allora si esercita un certo tipo di biopotere. Foucault ha scoperto il biopotere facendone una storia; non è un concetto filosofico astratto. L’idea di costruire una teoria generale del potere basata sul biopotere, secondo me, è sbagliata perché non si vede neanche la specificità del potere contemporaneo e moderno. I tentativi di organizzare il concetto di biopotere per farne una teoria generale sono molto antifoucaultiani. La necessità di mettere insieme l’analisi storica e l’argomentazione filosofica è centrale in Foucault. Abbiamo oggi la tendenza a riconcettualizzare il biopotere in termini di diritto, ad esempio, alla vita. Ma con questo discorso del diritto non si vede il funzionamento concreto del potere. Foucault ha trovato proprio nei movimenti femministi e gay una visione del potere che non è legata al campo della legge. Il biopotere è un potere sul comportamento, sull’idea di condotta. Per Foucault si comincia da una lotta per i diritti, ma si deve sempre andare al di là perché ottenere il diritto rischia di diventare il momento in cui si smette di lottare. Dobbiamo vedere sotto il diritto una tecnica di potere che controlla soprattutto la condotta. Alla domanda: «se lei non è per la monogamia, allora lei è per la poligamia?», Foucault rispondeva che non era per «nessuna gamia». Non si può chiudere la sessualità, l’amore, in una gabbia prefabbricata e il diritto può essere anche una maniera per ridurre al silenzio il contropotere. Per Foucault questo silenzio è il momento peggiore per chi intenda far politica.

In un testo di Foucault risalente al 1978, «Il gay sapere», emerge il rapporto fra piacere e desiderio. Se il desiderio è legato al potere, in che senso il piacere è una forma di resistenza al potere?


Nella Volontà di sapere c’è la distinzione fra ars erotica e scientia sexualis che, a mio avviso, è molto legata alla distinzione fra piacere e desiderio. Il desiderio è sempre un concetto psicologico e normalizzatore. Il desiderio esprime il vero sé, mentre il piacere non esprime, non spiega niente. Foucault diceva sempre che il piacere non ha una carta d’identità. Se è vero che il potere attuale più pericoloso è legato alle tecniche di normalizzazione e richiede una scienza della sessualità, allora creare nuovi piaceri è un modo di resistere a questo insieme compatto e forte, rendere visibili le linee di fragilità del potere.
Non dobbiamo ri-psicologizzare l’idea di piacere, ma condurre un’attività etica e politica difficile. Foucault ha mostrato bene il contrasto fra la psicologia della sessualità e l’arte di vivere: «l’arte di vivere è uccidere la psicologia». L’arte di vivere è arte di creazione, non di un nuovo desiderio che rientra subito nell’ambito della norma, ma di nuovi piaceri.

Si può tollerare che due ragazzi dormano nello stesso letto – si legge nel «Gay sapere» -ma quello che non si tollera è che al mattino dopo si risveglino insieme e vadano via felici…


C’è un senso di felicità come componente di un modo di vivere: questa è l’idea che io trovo in Foucault. Quando la felicità diventa uno spazio della cultura di sé non può essere ridotta alla psicologia. La felicità è da scegliere come l’etica è da scegliere. Diceva Foucault: «dobbiamo cercare un’etica dell’inquietudine». L’inquietudine è il modo in cui possiamo combattere l’autocompiacimento, forma in cui rischia di cadere la felicità. L’etica dell’inquietudine prova a creare, anche in risposta all’attualità politica, un certo modo di vivere. Sappiamo bene che quando il potere ci dice che siamo felici, che godiamo di diritti, è proprio quello il momento di pericolosità maggiore. L’attività etica e politica, almeno dal punto di vista di Foucault, che coincide col mio, finisce soltanto con la morte.
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